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La “guerra” delle mascherine, un’azienda di San Cesareo: “Così ci uccidete”


L’annuncio del Governo scoraggia anche chi cerca di riconvertirsi. Ecco cosa sta succedendo

“Ci siamo riconvertiti per rispondere a una necessità del nostro Paese, lo abbiamo fatto per dare una mano in questo momento e adesso che questa attività potrebbe essere utilie a integrare il nostro fatturato, per rimanere attivi sul mercato, il Governo impone prezzi di vendita, accentra ancora una volta le decisioni, penalizzando chi vuole darsi da fare”. A parlare e Laura Bottonei, titolare di Circuito Lavoro con sede a San Cesareo, marchio di abbigliamento professionale made in Italy.

Il provvedimento del Governo si riferisce alle mascherine “usa e getta”, ma anche il settore della moda italiana che si è riconvertito alla produzione di mascherine sta chiedendo un sostegno, affinché quanto investito finora non sia stato inutile.

Qualche settimana fa Monti Prenestini aveva raccontato la storia di questa azienda (LEGGI QUI) che a seguito dell’emergenza sanitaria di era lanciata con grande entusiasmo e (spesso) molti ostacoli nella produzione di mascherine. Ora con l’annuncio del Governo di fissare un prezzo al pubblico calmierato a 50 centesimi l’una, quest’azienda rischia di rimanere fortemente penalizzata perché quel prezzo, spiegano, è insostenibile per chi realizza mascherine in tessuto.

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La guerra dei prezzi

 Quando si impone un prezzo di mezzo euro, «evidentemente – dice Cna Federmoda — si pensa a una massiccia importazione di prodotti dalla Cina o da altri Paesi dove i diritti del lavoro, rispetto dell’ambiente, etica e responsabilità sociale sono un disturbo allo sviluppo economico».

L’imposizione del prezzo fissata ieri sera rappresenta un ulteriore schiaffo alle imprese italiane che hanno cercato di dare un contributo all’Italia mettendo a disposizione conoscenze e competenze e facendo lavorare persone che non gravano sulla spesa per gli ammortizzatori sociali. Il prezzo delle mascherine fissato a 0,50 € non rispecchia i costi di produzione». Proprio per far fronte al proliferare di riconversioni in ordine sparso, lo scorso 20 marzo Confindustria moda e Cna avevano messo a punto insieme il ministero della Salute, le Regioni, la Protezione civile e lo Sportello d’amianto nazionale un protocollo per far sì che le produzioni avessero le certificazioni necessarie per essere usate dal sistema sanitario.

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Una prova di sopravvivenza

“Ci hanno chiesto di metterci in regola e lo abbiamo fatto sostenendo anche dei costi. – continua l’imprenditrice di San Cesareo. Poi scopriamo che le regole cambiano, senza un criterio logico e il risultato è che non sappiamo mai cosa dobbiamo fare. Forse vogliono dirci semplicemente di starcene a casa senza far nulla. Per un’azienda come la nostra – continua Laura Bottonei – che si rivolge al food e alla moda questi provvedimenti ci hanno indicato finora solo la strada della chiusura. Chiudere la moda e il food significa chiudere l’Italia. Per noi le prospettive reali per una ripartenza sono solo tra un anno, perchè in questo momento nessuno verrà a investire nella nostra linea di produzione. E nel frattempo? Come ci arriveremo? È così che il Governo vuole tutelare e proteggere il Made in Italy?”

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